Post by Enotrio PallanzoCaso.
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Un fallimento è proprietario di una quota di partecipazione in una società
per azioni, il cui statuto riserva agli altri soci il diritto di prelazione
in caso di cessione da parte di un socio.
Il Giudice Delegato dispone la vendita al miglior offerente, senza incanto,
a prezzo base pari a quello stimato dal perito all'uopo nominato.
Domanda.
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Il socio avente diritto di prelazione conserva tale suo diritto anche se le
azioni sono vendute da parte di un fallimento ?
Grazie in anticipo a chi, avendo avuto occasione di riflettere o affrontare
la questione, dispone di conclusioni e riferimenti.
Enotrio Pallanzo
Vendita fallimentare di quote ed azioni
Balestri Cesare in Il Fallimento n. 3, anno 1987, pag. 305
Il problema della vendita fallimentare di quote ed azioni può essere
affrontato ipotizzando che il fallito sia titolare di quota di società a
responsabilità limitata o proprietario di azioni di società per azioni e che
quindi queste siano acquisite all'attivo del fallimento.
Il curatore deve assumerne la custodia e l'amministrazione in luogo del
fallito e provvedere alla loro vendita.
La vendita di quota di società a responsabilità limitata non trova una
propria disciplina nella legge fallimentare ma nel codice civile. Infatti
l'art. 2480, codice civile, al primo comma, afferma che la quota può formare
oggetto di espropriazione; al secondo comma disciplina le modalità della
vendita della quota liberamente trasferibile disponendo che l'ordinanza del
giudice che ne dispone la vendita deve essere notificata alla società a cura
del creditore. Il terzo comma disciplina il caso di vendita di quota non
liberamente trasferibile ed il quarto comma afferma che le disposizioni del
comma precedente si applicano anche nel caso di fallimento di un socio.
Nell'ipotesi di vendita fallimentare di quota di società a responsabilità
limitata si deve distinguere innanzitutto tra vendita di quota liberamente
trasferibile e vendita di quota non liberamente trasferibile.
Nel primo caso, sorge il problema se il disposto del secondo comma dell'art.
2480 debba o no essere rispettato anche in sede fallimentare e quindi il
curatore sia tenuto o meno a notificare alla società l'ordinanza di vendita
di cui all'art. 106, legge fallimentare.
La questione si pone perché l'ultimo comma dell'art. 2480, codice civile,
richiama soltanto il terzo comma del medesimo articolo e quindi si potrebbe
ritenere che, in caso di vendita di quota liberamente trasferibile, non sia
applicabile la disposizione di cui al secondo comma. A mio parere, il
curatore ha l'obbligo di notificare l'ordinanza di vendita in quanto se tale
obbligo è stato imposto al creditore procedente, in caso di esecuzione
individuale, non vedo perché non debba essere esteso al curatore del
fallimento. Si deve considerare infatti che tutta la normativa è ispirata
alla massima tutela degli interessi della società e della compagine sociale.
Nel caso di vendita di quote non liberamente trasferibili, occorre precisare
che tali limitazioni devono essere contenute nell'atto costitutivo (art.
2479, primo comma, codice civile) e possono prevedere sia un diritto di
prelazione a favore di tutti i soci (o di alcuni di essi) sia il
trasferimento della quota a determinate condizioni.
Occorre esaminare se la vendita della quota non liberamente trasferibile può
avvenire all'incanto oppure a trattativa privata.
Il BONSIGNORI (Della liquidazione dell'attivo, in Commentario
SCIALOJA-BRANCA Bologna-Roma 1979) esclude la seconda forma, innanzitutto,
per l'espressa previsione di cui all'art. 2480, terzo comma (vendita
all'incanto di cui all'art. 534, codice procedura civile) e, poi, perché
"l'intero meccanismo dell'accordo amichevole non potrebbe funzionare". Di
diverso parere è ANDRIOLI, (voce Fallimento, Enc. del dir., Milano, 438,
439).
Mi sembra però innanzitutto che l'art. 2480, terzo comma, preveda la
possibilità per il curatore e la società di trovare un accordo sulla vendita
della quota e solo in caso di disaccordo si debba far luogo alla vendita
(FERRARA, Il fallimento, Milano, 1974, 518). Quindi se l'accordo tra il
curatore e la società non è stato raggiunto, si potrà procedere
indifferentemente alla vendita con incanto o a trattativa privata ma avendo
l'accortezza in questo caso di dar modo alla società di intervenire con la
designazione del terzo che si sostituirà all'acquirente che ha partecipato
all'asta.
In caso di vendita all'incanto, la società può presentare successivamente
altro acquirente in luogo dell'aggiudicatario. Il giudice delegato dovrà
allora dichiarare con decreto l'inefficacia della vendita e disporre
l'aggiudicazione del bene all'acquirente presentato dalla società.
Le funzioni del giudice delegato non vanno oltre né come afferma la Corte di
cassazione, il tribunale, in sede di reclamo "(può) risolvere le
controversie che attengono alla eventuale nullità della sostituzione per
difetto di sostanza e di forma cui è soggetta, mancando una norma che
eccezionalmente gli attribuisca un tale potere. Trattasi, infatti, di
controversia che va decisa in autonomo giudizio con la partecipazione di
tutte le parti interessate, in sede contenziosa, attenendo alla struttura
soggettiva dell'ente" (così Cass. civ. 8 febbraio 1977, n. 545, in Dir.
fall, 1977, 4, 219, che ha cassato senza rinvio un decreto del Tribunale di
Bologna perché emanato in materia sottratta al procedimento camerale).
E' interessante rilevare che la Corte di cassazione (sentenza 12 maggio
1975, n. 1551, in Foro it., 1975, I, 2538, con nota contraria di TEDESCHI e
in Giur. it, 1975, I, 1185, con nota contraria di SANTINI) ha stabilito che
le tutele che all'art. 2480, codice civile, stabilisce a favore dei soci,
trovano applicazione in caso di vendita fallimentare ma non anche in ogni
caso di trasferimento coattivo quali il fallimento seguito da concordato
fallimentare, la liquidazione coatta amministrativa seguita da concordato o
il concordato preventivo.
Trattando adesso della vendita di azioni con clausola di gradimento o patto
di prelazione, si deve constatare che né la legge fallimentare né il codice
civile si occupano del problema.
In tema di vendita di azioni con patto di prelazione, una recente decisione
del Tribunale di Roma 29 novembre 1985 (inedita) ha ritenuto che in caso di
vendita di azioni da parte del fallimento il patto di prelazione, previsto
nello statuto per gli atti di trasferimento, non può essere fatto valere
nell'ipotesi di esecuzione forzata essendo questa volta a soddisfare
interessi di carattere pubblico e come tale non può trovare limitazioni od
esclusioni per atto negoziale. Il Tribunale ha poi ritenuto inapplicabile
l'art. 2480, codice civile, alla disciplina della vendita di azioni poiché
il nostro sistema prevede l'estensibilità alle società a responsabilità
limitata di alcune norme riguardanti le società per azioni e non viceversa.
La Suprema Corte ha però costantemente ritenuto che "tali clausole, una
volta adempiute le formalità di legge relative alla pubblicità dello statuto
e dell'atto costitutivo, devono presumersi note ed opponibili a tutti; che
oltre ad essere indirizzate alla tutela del patrimonio sociale, consacrano
altresì un vero e proprio diritto dei soci uti singoli". Soci e società
quindi potranno in virtù del diritto proprio di cui sono titolari, reagire
alla violazione della clausola di prelazione deducendo la nullità del
trasferimento dell'azione o della quota non solo nei confronti del socio
inadempiente, ma anche in quelli del terzo acquirente (Cass. civ. 26 ottobre
1973, n. 2763, in Dir. fall, 1974, II, 479 e Cass. civ. 10 ottobre 1957, n.
3702).
Per le clausole di gradimento, purché contenute nello statuto ed anche se
non risultanti dal titolo stesso, è stata sostenuta la c.d. efficacia reale.
Le clausole si inseriscono come elemento del procedimento di trasferimento
(ASQUINI, I limiti di validità delle clausole di gradimento al trasferimento
delle azioni, in Riv. soc., 1961, I, 725, in part. 727).
Se ciò è vero è difficile sostenere la non validità della clausola di
prelazione anche in caso di vendita fallimentare come affermato dal
Tribunale di Roma con la decisione sopra citata.
In tema di vendita di azioni con clausola di gradimento, è opportuno
precisare che la Corte di cassazione con sentenza 15 maggio 1978, n. 2365
(in Giur. comm., 1978, II, 639) e 25 ottobre 1982, n. 5567 (in Riv. dir.
comm., 1983, II, 69) ha ritenuto che devono considerarsi nulle le clausole
di gradimento che condizionano il trasferimento delle azioni al giudizio
discrezionale degli organi sociali (es. quelle che stabiliscono un divieto
assoluto di trasferimento, oppure che attribuiscono il potere di vietare il
trasferimento in ogni caso, senza limitazioni, senza riferimento ad elementi
concreti e quindi un diritto insindacabile di veto).
Di recente poi le clausole di gradimento hanno subito un ulteriore
restringimento del campo poiché la CONSOB, con delibera 19 dicembre 1984, n.
1622, ha stabilito che non possono essere ammesse alla quotazione azioni di
società nel cui atto costitutivo sia presente la c.d. clausola di
gradimento.
Nonostante ciò le clausole di gradimento possono sussistere ancora nel
nostro ordinamento ovviamente per azioni di società non quotate in borsa e
se l'alienazione è subordinata alla sussistenza di "situazioni specifiche
oggettive" ed "elementi concreti".
Fatte queste brevi ma necessarie premesse, occorre considerare gli effetti
che le predette clausole esplicano in caso di vendita fallimentare di azioni
facenti parte del patrimonio del fallito.
Parte della dottrina afferma che la disciplina prevista dall'art. 2480,
codice civile, può essere applicata anche nella vendita coattiva di azioni
sottoposte alla clausola di gradimento (cfr. BIGIAVI, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1953, 20, il quale, in particolare dichiara che nel dettare
l'art. 2355, codice civile, il legislatore non aveva presentato nessun
modello e quindi non poteva immaginare le difficoltà che sarebbero insorte).
Passando poi a regolare il problema nell'ambito delle società a
responsabilità limitata (il legislatore) poté avvalersi del recepito modello
austriaco (la legge 6 marzo 1906, n. 58, sulle società a garanzia limitata)
che quelle difficoltà prevedeva e, quindi, fu indotto a dettare una norma
che riguardasse l'esecuzione forzata.
Il silenzio o la dimenticanza del legislatore non debbono e non possono
impedirci di trasportare nel campo delle società per azioni le disposizioni
di cui all'art. 2480, codice civile.
Della medesima opinione sono BONSIGNORI (La liquidazione dell'attivo, in
Comm. alla legge fallimentare, Bologna, artt. 106, 115) e FRE' (Del lavoro,
comm. cod. civ. a cura di SCIALOJA-BRANCA, Bologna-Roma, 19, 255 ss.).
In senso contrario si è espresso DE FERRA (La circolazione delle
partecipazioni azionarie, Milano, 1964, 269). L'Autore nega che l'art. 2480
possa applicarsi all'espropriazione dell'azione innanzitutto per la mancanza
di un richiamo della disposizione in materia di società per azioni. Inoltre,
rispondendo alle argomentazioni del BIGIAVI, l'Autore ricorda che non è vero
che il legislatore non aveva presente alcun modello perché l'art. 174 del
progetto D'AMELIO e il codice svizzero del 1942 avevano previsto in caso di
vendita volontaria un meccanismo simile a quello recepito poi soltanto per
la vendita di quote di società a responsabilità limitata. Per DE FERRA la
soluzione del problema sta nel fatto che il mancato gradimento non preclude
l'effetto reale del trasferimento e quindi è ininfluente in caso di vendita
coattiva.
Esprimendo le considerazioni sul problema devo constatare la mancanza di una
normativa specifica in caso di vendita coattiva di azioni dovuta forse alla
diversa natura della quota rispetto all'azione, esprimendo, la prima, la
posizione globale del socio nell'ambito della società e la seconda il
complesso dei diritti, poteri inerenti all'azione stessa, svincolati dalla
figura dell'azionista.
Tuttavia se tale legame costituisse realmente la ratio del citato articolo
il legislatore avrebbe dovuto disporre la particolare disciplina della
vendita coattiva in ogni ipotesi (liberamente o non liberamente
trasferibile) di vendita di quota ma abbiamo visto che le particolari
condizioni e modalità di vendita si applicano soltanto in caso di non libera
trasferibilità della quota.
Ed allora è forse logico dedurre che le clausole di prelazione e di
gradimento esplicano non solo sulla quota ma anche sull'azione una loro
particolare influenza.
Qualora poi si volesse insistere sulla natura dell'azione come astratta
suddivisione del capitale sociale, si dovrebbe rilevare che dette clausole
costituiscono "fenomeni di personalizzazione della società per azioni".
Qualora poi si volesse sostenere la prevalenza degli interessi superiori
delle procedure concorsuali rispetto a diritti vantati dai terzi, occorre
ricordare che il fallimento non è certamente uno strumento capace di
travolgere o misconoscere gli interessi ed i diritti dei soggetti coinvolti,
direttamente e non, nelle procedure concorsuali.
Qualora infine si volesse accogliere quella teoria sostenuta da autorevole
dottrina (FERRI, Le società, Torino, 1985, 489) secondo la quale il
gradimento condiziona il trasferimento dell'azione nei confronti della
società ma non impedisce l'efficacia del trasferimento nei confronti delle
parti contraenti, dovremmo senz'altro ammettere che, in caso di vendita
coattiva, l'esistenza della clausola di gradimento non esplica nessun
impedimento alla vendita dell'azione come res.
Tuttavia non possiamo trascurare che, in genere, l'acquirente delle azioni
intende acquistare non solo un bene economico ma con esso anche la posizione
di socio. Orbene, qualora la società, legittimamente, rifiuti, avvalendosi
di valida clausola di gradimento, di iscrivere il nuovo socio nei libri
sociali, si dovrebbe anche ammettere che l'operazione di trasferimento non
potrebbe operare nella sua integrità. L'alea che corre l'acquirente delle
azioni soggette a gradimento comporterà un notevole deprezzamento
dell'azione. In questo caso, davvero, si verificherebbero proprio quegli
effetti negativi a carico della procedura fallimentare che sono costituiti
non tanto da intralci e ritardi nelle operazioni di vendita quanto dal
deprezzamento del bene venduto e quindi dal minor ricavo della vendita con
danno per i creditori. Inoltre nel caso che la società non dichiari il suo
gradimento nei confronti del nuovo aggiudicatario, il fallito rimarrebbe pur
sempre iscritto nei libri sociali ed il curatore costretto a gestire la
partecipazione sociale in vece e per conto dell'acquirente, nonostante
l'alienazione delle azioni.
Occorre ricordare inoltre che la Cassazione ha affermato con la citata
sentenza 25 ottobre 1982, n. 5567, in Riv. dir. comm., 1983, II, 69, ed in
part. 81, 82, che la validità dell'alienazione è subordinata alla
sussistenza del requisito prescritto dall'atto costitutivo (cioè al placet
della società al trasferimento dell'azione). Afferma LIBONATI, (Clausola di
gradimento e appello al pubblico risparmio, in Riv. dir. comm., 1983, I, 225
e in part. 250 ss.) "Ho l'impressione che tale affermazione della Corte non
costituisca un obiter dictum ma si inserisca logicamente nell'orientamento -
nel "nuovo corso"" - assunto dalla Suprema Corte.
E' quindi il trasferimento stesso che viene inficiato dal diniego da parte
della società. Se ciò è vero, come io ritengo, non rimane altra soluzione
che quella di estendere in via analogica le disposizioni di cui all'art.
2480, codice civile, al caso di vendita coattiva di azioni con clausola di
gradimento".
Sulla stessa linea BONSIGNORI (op. cit.) per il quale l'estensione analogica
della normativa è senz'altro legittima poiché vi è identità di ragione tra
la fattispecie priva di disciplina e quella dalla quale si può ricavare il
supplemento analogico: tutelare al massimo anche nella sanzione esecutiva,
l'intuitus personarum che costituisce a sua volta il fondamento economico
dei limiti di intrasferibilità statutariamente predisposti. L'indagine sulla
posizione di dottrina e giurisprudenza in materia di vendita fallimentare di
quote ed azioni, non ha, tuttavia, risolto il problema sul quale spero di
poter tornare con maggior approfondimento in futuro.